È che si perde la poesia delle cose.
Lo spirito del gruppo che è quella persona nascosta che sai sempre cosa si aspetta da te e quando la tradisci fa male, ma fa ancor più male sapere che non c’è, che se n’è andata.
Quel guardarsi in giro e vedere ogni cosa ridotta al suo essere, senza luce, senza colore. Niente monitor in bianco e nero, per carità. I fulgidi colori del mondo rimangono, ma il colore vero quello che vedi ed è solo tuo non c’è. Come un’eclissi o una notte nera. Ci fosse un temporale vedresti i colori meravigliosamente falsati, godresti di tutta quell’acqua, annegheresti nel folle ticchettare.
Avanti, indietro, stare, restare, fermare.
Fermare ecco.
Quella è sempre stata la parola. Ma l’interruttore? Perso sotto la crocchia dei capelli, nascosto in prossimità del ginocchio sinistro, invisibile proprio davanti alla mia mano destra casualmente impegnata da un cucchiaio.
Come questo mal di testa che va, non va, forse resta. Rimango in ufficio? Parto? Lavoro? Cazzeggio?
Ma poi, qual è il senso? Perché un senso c’è sempre. Sarà forse in verticale, il senso della crescita, o in orizzontale, il senso dello sfaldamento, o forse trasversale, il senso che si spiega da solo.
Zanetti canta Parole con Mina e io parlo parlo parlo perché non ho voglia di smettere perché non capisco il senso di smettere né quello di continuare e come sempre ho paura che fermarsi sia come dormire sia come un po’ morire.
E allora torno all’ermetismo e quindi..
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